Tutto nasce dall’intervista pubblicata sul sito di ON ROAD Mag al professor Raffaele Ghedini, intervento nel corso della quale l’economista esprimeva un giudizio positivo sull’interesse mostrato dalla politica e dall’autorità giudiziaria nei confronti delle dinamiche perseguite da diversi colossi della logistica, spingendosi a formulare una soluzione transitata forse per diverse menti intente ad analizzare la questione, ma rimasta per lo più inespressa: “Un attore ha un solo modo per superare l’handicap enorme rappresentato da un crollo di reputazione forte ed improvviso, ed è un enorme investimento in reputazione, che ha tanta più probabilità di essere efficace quanto più sono alte la coerenza rispetto alle determinanti del crollo subito, e la non reversibilità dell’intervento. Quanto alla prima, sappiamo che le determinanti del crollo di reputazione sono state le implicazioni dello sfruttamento eccessivo della terziarizzazione: bene, [esiste] qualcosa di più coerente della rinuncia alla terziarizzazione? Quanto all’irreversibilità: con le normative italiane riesce ad immaginare qualcosa di meno reversibile della rinuncia alla terziarizzazione?”.
Raccogliamo presto l’interesse di Massimo Marciani, Presidente del Freight Leaders Council, nonché uno dei massimi esperti italiani in tema di logistica, e chiediamo ai due studiosi di mettersi a confronto, per raccogliere, avidi di verità, le risultanze dell’incontro. Che riportiamo, sintetizzato, esattamente come è avvenuto.
Massimo Marciani Lavoro nel settore della logistica da trent’anni: sono uno statistico, e come tale abituato a ragionare sui numeri, sulle dinamiche e sui trend. Ho letto nelle parole del professor Ghedini la mia stessa lingua e la mia stessa determinazione nel voler scardinare, in questo momento storico in cui è necessario farlo, il mito dell’outsourcing non funzionale ad avere un servizio migliore ma piuttosto a minimizzare i costi della logistica. Purtroppo nel settore della logistica c’è una carenza totale di figure tecniche, mentre invece c’è un’assoluta proliferazione di avvocati e commercialisti che cercano attraverso le maglie di una normativa confusa di trovare soluzioni per minimizzare i costi e massimizzare i profitti, spesso ricorrendo allo strumento dell’evasione e dell’elusione fiscale e contributiva, quindi ai danni della collettività.
Come Freight Leaders Council cerchiamo da sempre di promuovere i temi della logistica sostenibile; sono inoltre da tre anni segretario generale dell’Osservatorio Transport Compliance Rating, polo di convergenza di committenti ispirati da una visione di lungo termine, insieme ai quali cerchiamo di creare una forma di collaborazione positiva, di ecosistema virtuoso tra domanda e offerta, e quindi tra loro e gli operatori della logistica.
Raffaele Ghedini Ringrazio Massimo Marciani e ricambio l’entusiasmo di trovarmi ad un tavolo a discutere di un settore in cui il trend manageriale dell’outsourcing è diventato mera terziarizzazione. Nel mio precedente intervento criticavo la visione cupa che aleggia intorno all’interesse da parte della politica e dell’autorità giudiziaria alle problematiche della logistica. Mi pare piuttosto che si debba plaudire al fatto che finalmente qualcuno abbia deciso di mettere sul tavolo gli interessi di questo settore, considerato una cenerentola per molti decenni, forse da sempre, e salito agli onori dell’attenzione collettiva solo in tempi recenti in occasione del Covid.
Però la percezione che se ne ha è ancora troppo utilitaristica, mentre invece non è per nulla chiara la sua importanza strategica. Della logistica andrebbe calcolato un doppio contributo al PIL, quello diretto di produttività, ma anche il suo moltiplicatore, perché parliamo di un settore abilitante l’attività di tutti gli altri comparti dell’economia. Questa componente è forse invisibile al consumatore finale, ma è assolutamente strategica per il sistema Paese.
Massimo Marciani Pienamente d’accordo. Ma aggiungerei, non solo invisibile nei confronti dell’opinione pubblica, ma irrilevante, o quasi, per la politica. Quando discutiamo con il referente politico la logistica appare a chi ascolta argomento talmente complesso da non ispirare neppure la giusta pazienza per comprenderne il significato e per valutare le implicazioni di quello che è a tutti gli effetti un sistema di vasi comunicanti in grado di dispiegare i suoi effetti a cascata su uno scacchiere globale. La similitudine che amo richiamare è quella della logistica come il wifi. Quando funziona si dà per scontato, quando smette di farlo tutti iniziano a domandarsi chi è il fornitore, dov’è il router, perché non c’è stata manutenzione: allora sì che diventa un argomento. E ciò che diamo per scontato, non siamo disposti a pagarlo.
Tutto ciò ha origine in una precisa responsabilità dello Stato che in tutti questi anni ha garantito all’imprenditoria quote di mercato, o comunque un backup nel caso di mancato raggiungimento delle stesse, favorendo il diffondersi di logiche di rendita anziché di profitto. Ci sono esempi famosissimi: i capitani coraggiosi che dovevano salvare l’Italia, i Benetton con la concessione delle autostrade. E così l’imprenditoria continua ad essere miope: in Italia il 75 per cento delle aziende vende franco fabbrica, vale a dire che la visione dell’imprenditore del suo ruolo nella società è quello di produrre per il piazzale non per i clienti ovunque siano nel mondo. Questo significa aver abdicato completamente al ruolo primario, che è quello di consegnare il prodotto, di mantenere una relazione commerciale, di interpretare in prima persona l’export italiano.
E così arriviamo al vulnus del discorso: il CFO di una delle prime cinque aziende di produzione italiana ha conferito mandato al supply chain manager di ridurre ogni anno i costi della logistica del cinque per cento. Non ha chiesto di tenere in considerazione qualità, sostenibilità, servizio, eticità, trasparenza, aspetto sociale: solo una secca riduzione dei costi. Di conseguenza il supply chain manager va sul mercato e non cerca un operatore franco destino, un operatore door to door, un operatore che investe. Cerca un operatore che sia il più economico possibile. Nella pratica funziona così: l’imprenditore che esporta in Finlandia chiede al suo cliente in Finlandia di venire a prendersi la merce permesso la sua azienda e quindi quest’ultimo si rivolge in ad esempio a DHL Helsinki, il quale attiva per la commessa DHL Italia che spesso si rivolge ad un qualsiasi padroncino italiano. Sul servizio marginano dunque una multinazionale con base in Italia e una con base in Finlandia: tutto quel valore viene sottratto dalla tariffa pagata al padroncino. Poi quando esaminiamo i bilanci delle aziende codice Ateco 49.41.00 (aziende di autotrasporto n.d.r.) vediamo che la redditività è a una cifra, molto spesso intorno al 3-5 per cento. Io mi domando, ma quale imprenditore sano di mente fa girare milioni di euro per avere questo reddito ? Come possiamo invertire questa tendenza? Come possiamo spingere l’imprenditoria italiana a vendere franco destino?
Raffaele Ghedini Una risposta compiuta a questa domanda sarebbe estremamente complessa. Proverei a semplificare ricordando che Napoleone Bonaparte diceva che la battaglia va combattuta con l’esercito di cui si dispone nel momento in cui la si deve combattere. Innanzitutto vorrei ricordare come questa caratteristica dell’imprenditoria italiana sia il risultato di un processo evolutivo di sistema. Quello industriale italiano è un sistema che nasce all’inizio del Novecento come misto, quindi con una presenza di industria pubblica, oltretutto predominante, e di industria privata. Finché le due componenti sono state entrambe presenti, si parlava più di attore “pubblico”. Quando il sistema misto è cessato, l’attore “pubblico” ha cominciato ad essere sostituito dall’attore “politico”: è dunque radicata nella storia del Paese un’abitudine alla relazione costante e continua tra gli attori dell’industria privata e il potere politico.
Vediamo in questi giorni alle Olimpiadi le atlete della ginnastica artistica compiere i loro prodigi, ma come hanno fatto a diventare così brave? Come hanno fatto all’inizio, quando dovevano imparare un volteggio, a non farsi male? La risposta è che tutte le loro inevitabili cadute sono state salvate dalla rete o dal materasso. Poi però, ad un certo punto, gli allenatori quella rete l’hanno tolta! Lo stesso è per l’attività economica privata. Se abbiamo la percezione di un sistema pieno di reti di protezione, alla fine non svilupperemo uno spirito proattivo, portato all’assunzione di un maggior rischio per ottenere un maggior profitto, e continueremo ad assecondare atteggiamenti di ricerca della rendita. Per favorire e allenare campioni occorre avere il coraggio, ad un certo punto, di togliere le reti di sicurezza. Non dimentichiamo che mediamente l’imprenditore italiano è molto più intraprendente di quello di molti altri Paesi. E che il nostro sistema economico-industriale è un sistema ancora giovane, molto più giovane di quello di molti dei nostri partner europei, e ha quindi davanti ottime prospettive di sviluppo.
Massimo Marciani Tornando al ruolo dello Stato, quando ho iniziato a studiare statistica mi è stato spiegato che il mio lavoro sarebbe stato al servizio delle decisioni politiche: avrei dovuto produrre analisi e trend, sulle quali poi il legislatore avrebbe dovuto prendere le opportune decisioni. Se avessi centrato tutta la mia attività professionale su questo sarei andato in analisi dopo qualche anno, perché in realtà il politico non ha nessun interesse nei confronti delle informazioni puntuali: le decisioni vengono prese a prescindere dai dati, dai numeri, dai miei trend, vengono prese su una base politica, spesso su una base dogmatica, ecco sì, meglio utilizzare questo termine, dogmatica, cioè perfettamente aderente alla posizione del partito. Anche le politiche dell’Unione Europea sono state semplicemente assorbite dal nostro Paese, non stimolate o ispirate, anzi, addirittura spesso osteggiate, pensiamo ai taxi o agli stabilimenti balneari, senza considerare l’interesse della collettività, ma facendo attenzione soltanto a quello dell’elettorato.
Nessuno si pone il problema di un cambiamento strutturale di cui si possa avere l’incasso fra dieci anni, e quindi a prescindere dal payback politico. Il settore dell’autotrasporto ogni anno – dati del ministero – riceve in termini di trasferimenti diretti e indiretti dello Stato un miliardo e quattrocento milioni per tenere in vita circa centomila aziende delle quali – voglio essere buono – il mercato ne avrebbe espulse ventimila nel giro di tre anni. Chi trae guadagno e beneficio da questa situazione? I committenti, quelli che comprano il servizio. Ma è, come detto prima parlando del ruolo dell’imprenditore, un vantaggio a brevissimo termine, e a loro chiedo: per quale ragione non applicate il concetto del prezzo più basso quando dovete cercare una tata per i vostri figli? Perché in quel caso non andate sul mercato a cercare chi vi costa di meno? Ecco, fin tanto che non riporteremo la stessa cura che abbiamo per i nostri figli nelle scelte aziendali, sarà difficilissimo invertire il trend. Che poi lasciare che il mercato faccia pulizia nel settore non curerebbe alcun problema sociale: gli autisti, i magazzinieri andrebbero a lavorare per altre aziende vista l’enorme carenza di mano d’opera in questo settore. Quindi non esiste il problema di garantire la continuità ai lavoratori ma solo diridurre le imprese inefficienti. E l’unico modo per farlo è lasciare che sia il mercato a trovare l’equilibrio: verso l’alto, non verso il basso.
Quindi sarebbe importante da un lato togliere questi contributi che drogano il mercato, ma al tempo stesso stabilire una visione chiara del futuro del nostro Paese: nel 2050 l’Italia che paese sarà? Sarà un paese che esporta prodotti? Che favorisce il turismo? Agricolo? Di trasformazione? È fondamentale saperlo perché poi la logistica dovrà accompagnare con i suoi servizi la visione del Paese. Ma da noi purtroppo si naviga a vista sviluppando tatticismi, non strategie. Se non c’è strategia la tattica diventa una difesa minimale che ci mortifica tutti. Mi piacerebbe fare un cenno anche al tema degli investimenti relativi al PNRR, che stiamo utilizzando male perché chi deve decidere su quali segmenti investire è alla ricerca del consenso e non dello sviluppo del Paese. E invece bisogna saper scegliere, individuare le priorità e su queste far confluire un volume consistente, non soltanto di finanziamenti, ma anche di attenzione e di delegificazione. Ho già definito il PNRR il nostro piano Marshall, un’occasione per ammodernare il Paese, digitalizzarlo, renderlo competitivo sui tanti settori nei quali siamo rimasti colpevolmente indietro. E invece vedo stata una frammentazione in mille rivoli e misure, e di circa centocinquanta miliardi giunti nel nostro Paese ne sono stati spesi finora indicativamente solo un terzo.
Raffaele Ghedini Verso la fine degli anni Ottanta coordinai uno studio su quello che veniva definito “il mito del MITI”, il ministero giapponese dell’industria e dell’innovazione tecnologica, che è stato il think tank promotore dell’onda di sviluppo della grande innovazione tecnologica giapponese. Dopo un anno e mezzo di lavoro tornai a casa con una risposta: “il mito del MITI” si nascondeva dietro ad una sola parola, strategia. Ogni cinque anni il governo giapponese, attraverso il MITI, decideva quali erano i settori su cui voleva puntare. Quattro o cinque, non di più, e annualmente si procedeva ad un fine tuning del piano. Questo era il grande segreto. Per avere ritorni importanti bisogna investire bene e in maniera significativa.
Facciamo un esempio dalle cronache di queste settimane: il settore aereo e Alitalia. Fino ad una ventina d’anni fa sarebbe stato pensabile sviluppare un progetto industriale serio, considerando anche il successo che hanno poi riportato gli operatori low cost, da un lato, e alcuni grandi operatori world-wide dall’altro, ma era necessario un approccio strategico: decidere che operatore si voleva avere o contribuire a creare, acquistare rotte e slot importanti e creare una compagnia che raggiungesse il break even in un’ottica di sostenibilità economica di lungo periodo. Se invece una compagnia viene gestita, come è stata gestita, con approccio tattico, quindi con quell’atteggiamento fortemente protettivo nei confronti di tutti, dipendenti e stakeholders veri o presunti, e non si investe sul business, è chiaro che alla fine non si conclude nulla.
Questa, molto semplicemente, è la grossa rivoluzione che occorre al nostro Paese: il passaggio da un approccio tattico ad uno strategico, che di fatto vuol dire la capacità e il coraggio di prendere decisioni chiare, pianificate e costantemente monitorate, sui settori su cui si vuole investire. Ciò sul piano macro della politica economica. Quanto poi al livello della struttura industriale, sono convinto che ogni settore, non solo quello della logistica, abbia bisogno al contempo di alcune grandi aziende, di un tessuto robusto di medie imprese, e anche di molte piccole realtà specialiste. Per inciso, quello che per noi è medio per il resto del mondo è piccolo, mentre quello che in Italia chiamiamo piccolo per il resto del mondo significa inesistente. Fatta questa annotazione però, ripeto, ogni settore ha bisogno di alcuni grandi operatori che, agendo da grandi reti abilitatrici, come nel caso della logistica, favoriscano e supportino ogni tipo di attività più specialistica. Poi è importantissimo un tessuto di medie e piccole aziende, e più si scende nella dimensione più è importante che aumenti la componente di specializzazione, per occupare ogni ambito competitivo specifico che la grande impresa non vede nemmeno. Una capacità sulla quale il sistema industriale italiano è straordinario, non ha competitor. Purtroppo, invece, siamo ormai totalmente privi come Paese di grandi aziende, non abbiamo praticamente più, in alcun settore, operatori in grado di abilitare network. Questa è la grande sfida che abbiamo davanti, e purtroppo ritengo che sia una sfida vitale, per l’economia dell’Italia.