Matteo Taverni, AD di Truck Italia

Matteo Taverni: i mille fronti di cui aver cura per vincere nel business

Parole e concetti che sembrano allineati con riga e squadra denunciano quel focus ferreo di chi è animato dalla volontà di portare l’azienda che dirige verso nuovi traguardi e sa come farlo. Eppure il sorriso che fa spesso capolino nel suo sguardo tradisce il cuore di chi dalla dimensione manageriale sa spaziare nelle mille sfaccettature che ineriscono ai rapporti umani. Matteo Taverni ci accoglie nei luminosi uffici di Montelupo Fiorentino della Truck Italia, sede principale del gruppo di concessionarie fondato da Giuliano, il papà che iniziava a vendere camion da ragazzo. Oggi l’imprenditore 44enne, che siede al timone dell’azienda lasciando ampio spazio sulla poltrona ad una visione moderna e capace di tenere conto dei cambiamenti in atto nel settore, risponde alle nostre domande.

Matteo Taverni, era scritto che questa sarebbe stata la sua vita? Com’è iniziato tutto?

Sono entrato in azienda quando ancora frequentavo l’università: era il 2001, e già a tempo perso, si fa per dire, lavoravo sviluppando siti web. Erano gli anni in cui cominciavano a diffondersi i primi gestionali, e mio padre e il suo socio, che gestivano insieme l’attività della concessionaria che allora vendeva vetture, veicoli commerciali e mezzi industriali, tutti Mercedes-Benz, mi chiesero di implementare il primo DMS. L’idea era di portare a termine il progetto, laurearmi, fare un’esperienza di lavoro altrove e poi magari tornare in azienda. In realtà dal giorno in cui ho varcato per la prima volta la soglia dello showroom non me ne sono più andato. Da informatico piano piano sono stato introdotto alla gestione del business, ho ricoperto il ruolo di responsabile marketing, poi ho assunto la direzione commerciale. Nel 2012 sono diventato General Manager di Truck Italia e nel 2019 amministratore delegato del Gruppo.

Può non essere semplice affiancare e poi subentrare ad un padre che ha avuto successo come il suo. Siete riusciti nel tempo a trovare il giusto equilibrio? 

Penso di sì, anche se bisognerebbe domandarlo pure a lui (ecco il sorriso!). L’intesa che abbiamo raggiunto è forse dipesa anche dalla scelta di non confrontarmi con lui su un piano esclusivamente commerciale. Mio padre è stato un ‘super venditore’, ha iniziato quando aveva solo 18 anni, ed è sempre stato il più bravo. Ho tenuto conto del suo insegnamento certo ma, non volendone ricalcare esattamente le orme, mi sono dedicato fin dall’inizio allo sviluppo manageriale dell’azienda, con l’obiettivo di strutturare al meglio i processi e avviare una corretta gestione finanziaria. Oggi sono un concessionario, ma voglio essere prima di tutto un imprenditore attento alle regole del business, che sono regole trasversali. Ho voluto e dovuto studiare un po’ di più per dimostrare di meritare i miei ruoli. A volte ci sono riuscito, altre no: oggi a 44 anni sono in una posizione nella quale mi sento a mio agio, ma avverto ancora la necessità di guardare avanti, di migliorarmi, di lavorare insieme a persone con competenze diverse dalle mie: perché se mi spingo avanti, procede nello stessa direzione tutta l’azienda.

Ecco spiegato l’arrivo di Thomas Lagrange, il nuovo general manager in carica dal primo settembre… 

Esatto. In azienda sono informale, non desidero essere circondato da yes man, e se qualcosa mi sfugge mi fa piacere mi venga fatto rilevare. Poi se ne discute, e si cercano le soluzioni. È importante però che nel momento in cui viene decisa una linea poi non se ne riparli, che si proceda. Ecco, credo che negli ultimi tempi le scelte strategiche siano state giuste, ma che sia mancata l’execution corretta. Ho sentito quindi il bisogno di creare un trait d’union tra il consiglio di amministrazione e la prima linea, con una persona come Thomas, portatore di una significativa competenza nel mondo automotive e un respiro internazionale. È belga e ha lavorato in quattro paesi prima di arrivare in Italia: credo che possa dare un contributo fondamentale nel mettere a terra un piano d’azione preciso, e puntuale nei tempi. Con lui intendo condividere le scelte strategiche dell’azienda come ho fatto fino ad ora con mio padre. Che formalmente è arrivato al momento della pensione, e dice di volersi godere un po’ di libertà. Chissà se lo farà davvero.

Una strategia forse resa necessaria anche dalla crescita importante del vostro gruppo, oggi decisamente articolato.

Sì, parliamo di un gruppo che dà lavoro a 180 persone su otto sedi, ed è declinato su quattro aziende: Truck Italia, la capofila, Toscana Truck, dedicata al mondo Renault Trucks, Nolcar, il nostro braccio ‘armato’ legato all’attività di noleggio, e infine Tirrena Bus, specializzata sul trasporto persone. Si tratta dell’ultima arrivata, per la quale abbiamo scelto una legal entity separata da quelle che avevamo già, per essere liberi da qualsiasi vincolo di brand: oggi commercializziamo prodotti di vari brand, anche diversi da quelli che rappresentiamo con le concessionarie. Quello del trasporto persone è un mercato che ha e avrà ancora di più nel prossimo futuro opportunità interessanti in termini di transizione energetica, in virtù dei vincoli degli enti appaltanti, dettati anche dai fondi del PNRR. 

Nascete sotto l’egida della Stella, ma nel tempo avete diversificato la vostra offerta. Quale il bilancio ad oggi di questo percorso?

Nel 2019 abbiamo operato la scelta di riposizionare il gruppo non più soltanto come legato esclusivamente al prodotto commercializzato, ma come piattaforma attiva sul territorio nella distribuzione automotive. La prima diversificazione avvenne con Bobcat, quando riflettemmo sul fatto che potevamo estendere la nostra offerta nei confronti dei clienti attivi nel movimento terra. Devo ammettere che è stato più difficile del previsto, abbiamo investito un paio d’anni per capire come funzionasse quel mondo, ma oggi è un business che sta marciando molto bene, anche grazie alla spinta che la 4.0 e il super bonus hanno inferto al settore legato all’edilizia. Da lì ha cominciato a prendere forma l’idea di variegare l’offerta di Truck Italia in modo da renderla più autonoma, anche per reazione alla prospettiva di una revisione del modello di business da parte di Mercedes-Benz. 

Il famoso Model D, il passaggio dei dealer Mercedes da concessionari ad agenti: se ne parla da anni, il momento è giunto?

Le ultime notizie certe che riguardano l’Italia parlano di una partenza nel quarto trimestre 2025. È una tematica che mi sta molto a cuore, anche perché ricopro il ruolo di vicepresidente sia in UCISM (Unione Concessionari Italiani Smart Mercedes) che in FEAC (Fédération Européenne des Amicales de Concessionnaires Mercedes-Benz). Ogni modello di business presenta una lista di pro e di contro, ma credo che togliere quegli elementi di flessibilità che il dealer poteva offrire nell’intermediare il rapporto tra gli acquirenti finali e casa madre possa rappresentare un grosso rischio. A prescindere dal margine, che ci preoccupa, e dagli stock. Noi siamo sempre stati un cuscinetto tra le spinte dei clienti e le rigidità di quella che è a tutti gli effetti un’azienda industriale. Casa madre dovrà imparare a fare retail e sarà difficile che possa adeguarsi in tempi rapidi. L’altra tematica, rilevata e condivisa con i colleghi europei, è la metamorfosi in senso luxury per le vetture e premium per i veicoli commerciali del brand: i cambi di pelle richiedono investimenti e tempistiche importanti. Tornando al Model D, su entrambi i tavoli delle associazioni di cui faccio parte stiamo spingendo per fare in modo che si arrivi al go live in un momento in cui i processi siano stati validati anche da noi concessionari, pardon, agenti.

Un cambiamento che arriva in un periodo delicato. Parliamo di transizione? 

L’automotive è stata lineare per 50 anni: oggi si stanno concentrando in un lasso di tempo estremamente ridotto tutta una serie di cambiamenti epocali. La transizione è necessaria, ma non è chiaro chi ne pagherà il prezzo. Perché nei paesi europei che sembravano plug and play sull’elettrico, nel momento in cui sono venute meno le sovvenzioni o i disincentivi sul termico, il mercato si è bloccato immediatamente. Lo vediamo anche nella nostra realtà: è soprattutto un tema di investimenti e di tempistiche. Nelle nostre sedi siamo passati dalla bassa alla media tensione, e abbiamo predisposto tutti i cablaggi per le colonnine fino a 800 KW: dico solo che ci sono voluti 18 mesi per gli allacciamenti. Ora siamo alla fase 2 del progetto, che ci vede affrontare i costi dell’installazione dei pannelli fotovoltaici su tutti i tetti degli edifici di nostra proprietà: d’altra parte le colonnine hanno senso se autoproduciamo l’energia, diversamente serebbe insostenibile.

Ma secondo lei, Matteo Taverni, ha senso questa strada che ha preso l’Europa e che probabilmente continuerà a percorrere?

Credo che l’Europa politicamente abbia commesso un errore macroscopico, perdendo un’opportunità di leadership su quella che era la nostra eccellenza: il motore diesel. Posso anche comprendere come il desiderio fosse quello di ridurre l’inquinamento nelle grandi città, più che di operare una valutazione sulla mappa globale delle emissioni. L’errore non è stato scegliere la transizione, ma non definirne la politica. A lungo è emersa la volontà di indirizzare in toto il processo di riduzione delle emissioni verso l’elettrico, e il fatto di averlo imposto ha influenzato il mercato. L’apertura ai biocarburanti, parziale e tardiva, è arrivata in un momento in cui tutti avevano già speso miliardi di euro in ricerca e sviluppo sui veicoli a batteria. Avrebbero dovuto imporre limiti emissivi e poi lasciare a ogni soggetto privato il compito di trovare la strada più giusta per centrare i target. Molto difficilmente si tornerà indietro, anche per questioni legate al tipo di strumento legislativo utilizzato per scrivere quelle date e quelle percentuali che ci spaventano, e alla complessità di un eventuale processo di revisione. 

Eppure aleggia sulle teste dei costruttori il tema delle multe: cosa succederà?

Per saperlo bisognerebbe aspettare il momento in cui due o tre costruttori, o anche di più, si trovassero a doverle pagare, quelle multe: sarebbe dimostrato che non è un problema tecnico del singolo, incapace di raggiungere gli obiettivi, ma che quegli obiettivi, in assenza di un piano di transizione strutturato, non sono raggiungibili. Personalmente credo che i costruttori a quel punto taglierebbero la disponibilità di prodotto endotermico valutando di riuscire ad assorbire meglio una contrazione delle vendite piuttosto che l’emorragia della sanzione. Anche perché la sanzione, da un punto di vista di mercato, ed è ciò che secondo me terrorizza di più, potrebbe essere significativamente penalizzante sull’andamento del titolo in borsa, con tutte le conseguenze che ognuno di noi può immaginare.

In ogni caso voi tra Mercedes-Benz, Renault Trucks, Maxus e Foton avete costruito un portafoglio declinato anche sull’elettrico: come sta andando la richiesta?

A scegliere l’elettrico sono state inizialmente le grandi flotte con la formula del noleggio a lungo termine, la modalità giusta per mantenere una rata affrontabile e non assumere il rischio del valore residuo dell’asset. Oggi in realtà anche da parte di queste aziende l’interesse, che fino ad inizio anno è stato abbastanza vivo, si è raffreddato. La sostenibilità deve essere anche economica per il cliente, mentre quello che osserviamo è che se ci sono sovvenzioni o se la committenza lo chiede espressamente si attiva l’interesse, in assenza tutto scema. D’altra parte non si tratta solo dell’acquisto o del pagamento del noleggio: per gestire un veicolo elettrico occorre implementare l’infrastruttura di ricarica e va rivista l’impostazione della logistica, e sono tutti costi in più.

Tanti marchi nell’offerta delle vostre concessionarie, tra cui anche Piaggio Commercial: non rischiate una sorta di cannibalizzazione?

Io dico sempre che i nostri commerciali, quando si alzano al mattino, devono avere chiaro che portano a casa lo stipendio vendendo quel prodotto specifico che è stato affidato loro. Ci deve essere un’intima connessione tra prodotto e venditore, ed è in questo senso che ci stiamo strutturando, proprio nell’ottica della specializzazione. Prima era più facile vendere anche in assenza di una dedication alta da parte della forza vendita perché c’era più domanda che offerta di prodotti. Ora che invece siamo tornati a vivere in un mercato push, la specializzazione è vitale. Questo in Truck Italia l’abbiamo capito fin dal 2008, quando abbiamo diviso, prima ancora che lo facesse casa madre, la rete vendita tra van e truck e messo due responsabili a capo delle relative sezioni. Oggi proseguiamo con personale dedicato: chi è più bravo vince. E sì, può succedere che si cannibalizzino tra loro, anche se in realtà capita meno spesso di quanto vorrei, perché il mercato è grande e il singolo non riesce ad essere presente su tutte le trattative. Potrebbe sembrare inefficiente, in realtà quale che sia il venditore a vincere, vince l’azienda: credo proprio che questa sia la modalità giusta di stare sul mercato e fare un multi brand sano.

Com’è andato fin qui il 2024 per il vostro Gruppo? 

In termini di fatturato leggermente meglio dello scorso anno, con il noleggio in crescita del 20 per cento. Gli ordini invece a partire da giugno hanno iniziato a rallentare. Siamo però preoccupati soprattutto dall’andamento delle rimanenze, cresce cioè il tempo necessario per consegnare i veicoli ai cliente. Un po’ perché l’accesso ad alcune pratiche tipo Sabatini rende la finanziabilità delle aziende più lunga rispetto a prima, un po’ perché esistono colli di bottiglia legati all’allestimento e ai collaudi, con i partner più richiesti che presentano agende fittissime e molte aziende che per contro hanno cessato l’attività. In più abbiamo un serio problema legato al reperimento di nuovi tecnici: l’organico corretto per le nostre officine sarebbe di circa 95 persone, ma oggi ne mancano all’appello 15. Abbiamo tentato diverse strade: la collaborazione con istituti professionali, l’accademia interna, ora stiamo provando a capire se c’è un modo di rivolgersi all’estero. Vale una considerazione su tutte: le officine che funzionano meglio sono ancora quelle in cui lavora il proprietario, sì, proprio il titolare che risponde alle chiamate anche a Natale: il nostro obiettivo è coniugare questo tipo di disponibilità con l’appartenenza a un gruppo grande e strutturato come il nostro. Attenzione però, perché se riuscissimo nel nostro intento ma contemporaneamente dovesse verificarsi un impatto significativo dell’elettrico sull’immatricolato, la sostenibilità del progetto potrebbe essere rimessa in discussione. Con il paradosso di avere oggi carenza di meccanici e domani officine troppo strutturate nel momento in cui ci dovesse essere meno bisogno.

Un bel puzzle dove ogni giorno va inserito il tassello giusto.

È uno scenario complesso: dobbiamo strutturare le nostre aziende per essere pronte a qualcosa che deve arrivare, senza sapere quando questo ‘qualcosa’ avverrà e in che termini. È il motivo per cui oggi è di fondamentale importanza efficientare al massimo ogni singolo processo ed essere così il più preparati possibile a ciò che di nuovo sarà lì ad attenderci il giorno successivo.

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